-
-
Notifications
You must be signed in to change notification settings - Fork 0
/
Copy path75129-0.txt
8547 lines (7363 loc) · 480 KB
/
75129-0.txt
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
16
17
18
19
20
21
22
23
24
25
26
27
28
29
30
31
32
33
34
35
36
37
38
39
40
41
42
43
44
45
46
47
48
49
50
51
52
53
54
55
56
57
58
59
60
61
62
63
64
65
66
67
68
69
70
71
72
73
74
75
76
77
78
79
80
81
82
83
84
85
86
87
88
89
90
91
92
93
94
95
96
97
98
99
100
101
102
103
104
105
106
107
108
109
110
111
112
113
114
115
116
117
118
119
120
121
122
123
124
125
126
127
128
129
130
131
132
133
134
135
136
137
138
139
140
141
142
143
144
145
146
147
148
149
150
151
152
153
154
155
156
157
158
159
160
161
162
163
164
165
166
167
168
169
170
171
172
173
174
175
176
177
178
179
180
181
182
183
184
185
186
187
188
189
190
191
192
193
194
195
196
197
198
199
200
201
202
203
204
205
206
207
208
209
210
211
212
213
214
215
216
217
218
219
220
221
222
223
224
225
226
227
228
229
230
231
232
233
234
235
236
237
238
239
240
241
242
243
244
245
246
247
248
249
250
251
252
253
254
255
256
257
258
259
260
261
262
263
264
265
266
267
268
269
270
271
272
273
274
275
276
277
278
279
280
281
282
283
284
285
286
287
288
289
290
291
292
293
294
295
296
297
298
299
300
301
302
303
304
305
306
307
308
309
310
311
312
313
314
315
316
317
318
319
320
321
322
323
324
325
326
327
328
329
330
331
332
333
334
335
336
337
338
339
340
341
342
343
344
345
346
347
348
349
350
351
352
353
354
355
356
357
358
359
360
361
362
363
364
365
366
367
368
369
370
371
372
373
374
375
376
377
378
379
380
381
382
383
384
385
386
387
388
389
390
391
392
393
394
395
396
397
398
399
400
401
402
403
404
405
406
407
408
409
410
411
412
413
414
415
416
417
418
419
420
421
422
423
424
425
426
427
428
429
430
431
432
433
434
435
436
437
438
439
440
441
442
443
444
445
446
447
448
449
450
451
452
453
454
455
456
457
458
459
460
461
462
463
464
465
466
467
468
469
470
471
472
473
474
475
476
477
478
479
480
481
482
483
484
485
486
487
488
489
490
491
492
493
494
495
496
497
498
499
500
501
502
503
504
505
506
507
508
509
510
511
512
513
514
515
516
517
518
519
520
521
522
523
524
525
526
527
528
529
530
531
532
533
534
535
536
537
538
539
540
541
542
543
544
545
546
547
548
549
550
551
552
553
554
555
556
557
558
559
560
561
562
563
564
565
566
567
568
569
570
571
572
573
574
575
576
577
578
579
580
581
582
583
584
585
586
587
588
589
590
591
592
593
594
595
596
597
598
599
600
601
602
603
604
605
606
607
608
609
610
611
612
613
614
615
616
617
618
619
620
621
622
623
624
625
626
627
628
629
630
631
632
633
634
635
636
637
638
639
640
641
642
643
644
645
646
647
648
649
650
651
652
653
654
655
656
657
658
659
660
661
662
663
664
665
666
667
668
669
670
671
672
673
674
675
676
677
678
679
680
681
682
683
684
685
686
687
688
689
690
691
692
693
694
695
696
697
698
699
700
701
702
703
704
705
706
707
708
709
710
711
712
713
714
715
716
717
718
719
720
721
722
723
724
725
726
727
728
729
730
731
732
733
734
735
736
737
738
739
740
741
742
743
744
745
746
747
748
749
750
751
752
753
754
755
756
757
758
759
760
761
762
763
764
765
766
767
768
769
770
771
772
773
774
775
776
777
778
779
780
781
782
783
784
785
786
787
788
789
790
791
792
793
794
795
796
797
798
799
800
801
802
803
804
805
806
807
808
809
810
811
812
813
814
815
816
817
818
819
820
821
822
823
824
825
826
827
828
829
830
831
832
833
834
835
836
837
838
839
840
841
842
843
844
845
846
847
848
849
850
851
852
853
854
855
856
857
858
859
860
861
862
863
864
865
866
867
868
869
870
871
872
873
874
875
876
877
878
879
880
881
882
883
884
885
886
887
888
889
890
891
892
893
894
895
896
897
898
899
900
901
902
903
904
905
906
907
908
909
910
911
912
913
914
915
916
917
918
919
920
921
922
923
924
925
926
927
928
929
930
931
932
933
934
935
936
937
938
939
940
941
942
943
944
945
946
947
948
949
950
951
952
953
954
955
956
957
958
959
960
961
962
963
964
965
966
967
968
969
970
971
972
973
974
975
976
977
978
979
980
981
982
983
984
985
986
987
988
989
990
991
992
993
994
995
996
997
998
999
1000
*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK 75129 ***
EDMONDO DE AMICIS
LOTTE CIVILI
MILANO
FRATELLI TREVES, EDITORI
1910
PROPRIETÀ LETTERARIA.
_I diritti di riproduzione e di traduzione sono riservati per
tutti i paesi, compresi la Svezia, la Norvegia e l’Olanda._
Milano. — Tip. Treves.
PREFAZIONE.
Il figlio Ugo e l’editore Emilio Treves non vogliono che alla serie
delle opere di Edmondo De Amicis manchi il libro che rappresenta
l’azione da lui esercitata nella vita politica italiana con gli scritti
d’argomento sociale, sparsi finora in giornali e in opuscoli di partito
o raccolti alla rinfusa in edizioni di propaganda; pensando che essi
pure hanno un singolare valore letterario e meritano di appartenere al
retaggio universalmente noto dello scrittore.
Si sa che il De Amicis, la cui anima affettuosa era sempre stata
riboccante di simpatia per gli umili e di pietà per i sofferenti,
si volse risolutamente al socialismo nel 1890, quando aveva
quarantaquattro anni.[1] Disse egli medesimo che il suo caloroso
aderire alle nuove dottrine era stato da prima l’espressione dei
sentimenti di carità e di giustizia, a cui tutta la sua persona
morale era preparata, anzi nata; ma poi era anche divenuto l’effetto
di un esame ragionato della questione sociale, quanto gli era stato
possibile di farlo, mettendosi coscienziosamente, sebben tardi, agli
studî necessarî a quell’esame. Persuasosi che “la sola idealità dei
tempi nuovi, la sola che abbia ancora virtù di muovere le masse e
che meriti nuovi sacrifizî di energie generose, è la redenzione delle
plebi„, sentì di non poter più avere pace nè dignità di coscienza se
non nel porre l’opera sua di scrittore in servigio di quella idealità,
immolando qualunque suo personale interesse al compimento di tale
dovere.
Nato di sentimento, maturato nella riflessione e nello studio, nudrito
di amplissime letture, il socialismo del De Amicis doveva avere pronta
e piena manifestazione in un romanzo, _Primo maggio_, ch’egli compose
fra il 1890 e il 1893, e di cui si conserva il testo manoscritto.
Ma quel libro, ideato nel fervido “entusiasmo apostolico dei primi
giorni„, atteso con appassionata curiosità in Italia e fuori, allorchè
fu compiuto non piacque più, come opera di pensiero e di arte, al
suo autore; il quale, con mirabile esempio di probità letteraria, non
volle dare alle stampe ciò che, prima dei lettori, la sua coscienza non
poteva sicuramente approvare; non volle tentare la pubblicazione come
un gioco di fortuna; e condannò il romanzo, famoso prima che noto, a
rimanere inedito. Solo ne aveva messo fuori il primo capitolo, nella
_Nuova Antologia_ del 1.º maggio 1892; altri brani e frammenti ne
diede liberalmente qua e là, a giornali socialisti che sollecitavano la
sua collaborazione; e sarà facile al lettore riconoscerli, anche come
confessioni palesemente personali, fra i racconti e dialoghi compresi
in questo volume.
In quegli stessi giornali, principalmente nell’_Avanti!_ di Roma e nel
_Grido del Popolo_ di Torino, allora e negli anni seguenti, mentre
proseguiva la sua azione militante nel partito, che fra asprissime
battaglie andava allora organizzandosi per la conquista dei pubblici
poteri, il De Amicis pubblicò un gran numero di articoli d’occasione
e scritterelli di propaganda, che ora non sarebbe possibile nè
conveniente raccogliere tutti quanti. E così si dica delle molte sue
pagine sparse contro il militarismo e per la pace fra i popoli.
Egli era stato soldato valoroso, ufficiale devoto alla patria e alla
bandiera. Ma per la guerra aveva sempre avuto anzi orrore che amore; e,
terminate le sante guerre dell’indipendenza nazionale, aveva deposto
la spada, rinunziando alla carriera delle armi, per la quale non era
fatto. E naturalmente, con quel medesimo spirito con cui aveva cercato
nell’esercito e nella vita militare gli elementi dell’umana fraternità
e l’ideale di una civiltà superiore, franca dalla violenza e dal
sangue, seguitò, confortato dalla nuova fede politica, e senza però mai
vituperare le istituzioni che aveva onoratamente servito, a combattere
contro la guerra, a vagheggiare la società dei popoli pacificata
dal progresso morale e dalla necessità stessa della comune esistenza
economica.
Col titolo di _Lotte civili_, già consacrato nell’uso dalle varie
stampe del Nerbini di Firenze (toltine i due discorsi _Per il 1.º
maggio_ e _Per la questione sociale_, che già si leggono, integri
e corretti, nel libro delle _Speranze e glorie_, e il capitolo _La
canaglia_, che appartiene al libro di _Capo d’anno, pagine parlate_),
sono ordinati nel presente volume i più notevoli scritti minori del De
Amicis per il socialismo e per la pace; nè soltanto quelli che altri
prima raccolse, ma parecchi di più, tratti da giornali e da opuscoli
dispersi, come _Una tempesta in famiglia_, _Un borghese originale_,
_Un episodio della battaglia di Custoza_: cose particolarmente
interessanti, alle quali la destinazione politica ha fatto torto,
lasciandole ignorare agli infiniti lettori che, fuor della politica,
ammirano l’arte e l’animo dello scrittore.
È giusto, è doveroso far sì che tutti possano leggere e serbare accanto
agli altri libri del De Amicis anche questo, non messo insieme da
lui, ma pieno del suo ingegno generoso, il quale vi appare incitato a
insoliti ardimenti, a nuove prove di pensiero e di stile, dal proposito
di guadagnare il consenso altrui alla sua concezione della giustizia
e dell’armonia sociale. Ottenga o no tale consenso, il De Amicis è pur
sempre quel maestro di rettitudine e di bontà che tutti possono amare,
qualunque siano le loro opinioni; è lo scrittore profondamente sincero,
a cui tutti debbono reverenza; ed è in ogni caso tale autore, che niuna
parte del suo lavoro ha da rimanere abbandonata.
Torino, ottobre 1910.
DINO MANTOVANI.
PARTE PRIMA.
RACCONTI E DIALOGHI.
Il primo passo.
(FRAMMENTO DI UN ROMANZO INEDITO.)
Alberto Bianchini aveva scelto la carriera dell’insegnamento
letterario, non solo per la tendenza naturale del proprio ingegno,
ma anche per un sentimento capriccioso di vanità mondana: perchè
gli pareva che in lui, giovane agiato, elegante, addestrato a tutti
gli esercizi cavallereschi, e destinato a brillare nella società
signorile, avrebbe acquistato una grazia insolita, sarebbe parso una
qualità singolare ed amabile quel titolo di professore di lettere,
che suol dare l’immagine d’uno studioso un po’ pedante e un po’
sciatto, rifuggente dal bel mondo per necessità o per natura. Ma questa
vanità egli aveva perduta in parte nel corso dei suoi forti studi
universitari, e non gliene restava più traccia quando, terminati gli
studi, entrava a un tempo stesso nell’insegnamento e nell’arte.
Nell’arte era entrato di sbalzo con un’opera d’immaginazione e
d’analisi: le confessioni d’un uomo che, rifatto fisicamente fanciullo,
ricomincia la vita scolastica, e giudica dai banchi della scuola, con
l’intelligenza e l’esperienza dell’età virile, gli studi, i compagni,
gl’insegnanti, i piccoli avvenimenti d’ogni giorno; lavoro, per le
sue forze, prematuro, e in molti punti manchevole; ma vivo e ardito,
lampeggiante d’idee originali, e condotto, da un capo all’altro, a
ondate d’eloquenza colorita e sonora, che avevano avuto una fortuna.
Ma dopo questo, cui eran seguiti altri libri, il suo ingegno s’era
urtato a un intoppo misterioso e insuperabile. Aveva ottenuto ancora
qualche favore la «Storia d’una casa di montagna», nuova nel concetto,
ma errata nel disegno, nella quale eran descritti e narrati, giorno per
giorno, il lavoro di costruzione, le fatiche, le dispute, gli amori, le
piccole vicende degli operai e delle operaie, dalla scavazione per le
fondamenta fino alla festa tradizionale per il compimento del tetto,
con una sovrabbondanza pesante di particolari tecnici, fornitigli dal
muratore Peroni, abitante nella casa: poi egli non aveva fatto più
altro che ricercar sè stesso senza ritrovarsi. E uscito deluso anche
dalla prova degli studi d’erudizione e di critica, a cui si ribellava
la sua indole impaziente e la sua calda fantasia, era vissuto lungo
tempo in uno stato doloroso d’impotenza artistica, durante il quale
aveva assistito alla morte lenta della sua prima gloria, cercando
invano una grande idea onde far scaturire una grande passione, sentendo
spegnersi, l’un dopo l’altro, tutti i suoi entusiasmi, e le sue
migliori facoltà arrugginirsi nell’inerzia, e intristire nell’ombra
anche la bontà del suo cuore. A ventitre anni era quasi celebre, a
trentacinque era come morto.
Un piccolo avvenimento fortuito lo mise quasi a un tratto in un nuovo
corso di idee. Era entrato quell’anno, a lezioni incominciate, nel
primo corso del liceo Brofferio, dov’egli insegnava lettere italiane,
un giovanetto di sedici anni, pallido, serio, che il Preside gli aveva
annunziato un giorno avanti con cert’aria d’inquietudine, dicendogli
che era fratello di un avvocato Rateri, non conosciuto da tutti e
due che di nome, direttore d’un giornale socialista, la «Questione
sociale», fondato di fresco. Non essendosi occupato mai di tale
argomento, che gli appariva come un problema di meccanica celeste, egli
non aveva mai letto il giornale, che a Torino leggevano pochissimi,
e che gli altri giornali cittadini non rammentavano mai. La presenza
di quel giovinetto nella scuola gli destò una vaga curiosità, che lo
indusse a cercare il foglio, con la certezza di non trovarvi che dei
saggi, non nuovi, di quella vacua rettorica rivoluzionaria, di cui
finanche l’eco lontana l’aveva sempre seccato. Ma, leggendone un primo
numero, e altri dopo, stupì.
Il giornale era scritto quasi per intero dal direttore, che si celava
sotto vari pseudonimi. Il supposto rétore arruffapopoli era una mente
ordinata e ragionatrice, dotata d’una forza d’argomentazione mirabile,
che allacciava e serrava il lettore per modo, da dargli quasi un senso
d’oppressione doloroso all’orgoglio, e aveva una potenza d’espressione
tutta propria, attinta, in parte, a forti studi letterari, la quale
s’aiutava in mille forme ardite e felici col latino, col francese,
col tedesco, col vernacoli, e col linguaggio di tutte le scienze,
condensando le idee, con uno sforzo quasi violento in uno stile
pieno di asprezze e di scosse subitanee, e come rumoreggiante giù nel
profondo, dove pareva di sentir martellare delle incudini, soffiare dei
mantici, fremere delle folle.
Egli che ignorava ancora l’arte facile con la quale si fa il vuoto e il
silenzio intorno ai propagatori delle idee odiate, si maravigliò che un
pensatore e uno scrittore di quella fibra non avesse più autorità e più
rinomanza. Digiuno affatto com’era delle dottrine che quegli propugnava
con tanto vigore, non poteva seguitare il filo scientifico dei suoi
ragionamenti, che richiedevano nel lettore studi e consuetudini
intellettuali molto diverse dalle sue; onde si arrestava ad ogni tratto
nella lettura come chi ha smarrito la strada in un paese straniero; ma
la gagliardia delle critiche, simile a percosse di fruste metalliche,
con cui flagellava i vizi e le idee della sua classe; la profonda
limpidità dello sguardo col quale, attraversando i tempi, vedeva gli
indizi, gli aspetti, le vicende della grande quistione a tutti gli
orizzonti della storia; la fede irremovibile nella propria ragione;
la superba certezza della vittoria futura, che appariva in ogni suo
scritto, piantata sopra un fondamento saldissimo di meditazioni
continue e pacate, gli scossero l’animo, gli suscitarono un vivo
desiderio di avvicinarsi, studiando la questione, a quel singolarissimo
ingegno. Un giorno quegli venne alla scuola a domandare informazioni
del fratello e scambiò qualche parola con lui. Il suo aspetto gli rese
anche più vivo quel desiderio. Era un uomo sui trentotto anni, alto e
diritto, con un viso lungo e regolarissimo, d’una bianchezza e d’una
fermezza marmorea, al quale i capelli irti e corti e la barba piena
facevano una cornice nera, quasi funerea, e aveva due occhi azzurri
velati, che parevan sempre fissi sopra un orizzonte lontano: una
testa d’ostinato, una fronte d’uomo imperturbabile, un abito da prete
spretato, una cortesia fredda, una voce aspra, e nessun gesto, come se
avesse le braccia d’un morto.
Di qui ebbe l’impulso primo che lo volse agli studi sociali....
*
Un caso lo spinse innanzi prima del tempo. Desideroso di conoscere
le prime manifestazioni dell’ingegno del Rateri, e un poco anche di
vedere in che specie di fucina egli martellava la sua strana prosa
di battaglia, andò un giorno a cercar la raccolta del primo semestre
all’ufficio del giornale, che era in una strada fuor di mano di Borgo
San Secondo, in due stanze a terreno, in fondo a un cortile silenzioso.
Visto l’uscio aperto, entrò senza picchiare, credendo di trovar nella
prima stanza un segretario o commesso che ricevesse i visitatori;
e invece si trovò subito nell’ufficio di redazione, in uno stanzone
lungo e nudo come un parlatorio di convento, dove, a capo d’una grande
tavola senza tappeto, coperta di giornali, stava seduto il direttore,
e ritto accanto a lui una signora e un operaio, che spiccavano sul
vano luminoso d’un finestrone. N’ebbe un senso di rispetto, come se
il desiderio della raccolta, che l’aveva condotto là, potesse parere
al Rateri un pretesto puerile per fargli indovinare l’animo proprio, e
quasi per offrirsi alla Causa.
Vedendolo entrare, il Rateri pronunziò il suo nome in accento
interrogativo, senza poter reprimere un piccolo moto di stupore, e gli
altri due lo guardarono con una curiosità evidente di saper con che
scopo fosse venuto. Gli passò sul viso un leggerissimo rossore, che
quelli notarono, e, rapidamente, guardando un busto di Carlo Marx che
era nel mezzo d’una parete, cercò un altro pretesto alla visita. Ma non
ce n’era altri che non dovesse parere anche più finto di quello.
Espresse il suo desiderio.
Allora quei tre lo fissarono con uno sguardo anche più intenso, col
quale egli incrociò il suo, curiosamente, indovinando il pensiero di
tutti e tre. Uno sguardo gli bastò per capire chi fossero l’uomo e la
donna che vedeva per la prima volta. La donna era certo quella Maria
Zara, della quale si parlava da un anno a Torino, dilaniandola, a
causa della propaganda che faceva tra le operaie, per raccoglierle in
associazioni, con articoli e conferenze, che si mettevano in ridicolo:
una specie di Luisa Michel, come la definivano. Il suo aspetto non
corrispondeva punto all’immagine che il Bianchini se n’era fatta,
udendone dire gli orrori che ne dicevano. Dimostrava un trentasei
o trentasett’anni: era alta di statura e pallida, e aveva gli occhi
scuri e profondi, con due grandi sopracciglia nere, da cui le risaliva
fino a mezza fronte una ruga sottile e diretta, che le dava un’aria di
energia virile, e sviava l’attenzione della grazia originale, benchè
un po’ appassita e quasi stanca, del suo viso pensieroso. Era vestita
di nero, col collo nudo, semplice, e pettinata semplicemente: pareva
una monaca che avesse buttato il velo, e il contrasto del suo viso
spirituale e triste con le belle forme del suo corpo robusto e fermo
nell’atteggiamento risoluto d’una donna abituata a parlare in pubblico,
aveva non so che di strano e seducente, da cui il Bianchini fu scosso.
L’operaio, meno alto di lei, un tipo di giovane russo, di viso fino ed
aperto, contornato d’una barba rossiccia, e vestito di panni logori,
ma pulitissimi, che lo guardava con gli occhi socchiusi d’un miope,
gli parve che dovess’essere — e non s’ingannava — un tal Mario Barra,
del quale la «Questione sociale» pubblicava certi articoli intorno
all’«organizzazione della classe operaia», veri torrenti di parole
e di pensieri monchi e disordinati, in cui si sentiva il balbettìo
impaziente d’una intelligenza affollata d’idee, che per la difficoltà
d’uscire s’ingorgavano come il liquido nel collo troppo stretto d’una
bottiglia capovolta.
Il Bianchini notò una diversa espressione nei tre sguardi che lo
fissarono: in quello del Rateri una fredda curiosità, come davanti al
semplice enunciato d’un problema aritmetico; in quello dell’operaio
una idea di simpatia, che s’avvicinava al sorriso; in quello della
donna il senso d’una interrogazione severa e quasi diffidente, ma in
cui gli parve pure di scorgere qualche cos’altro, come l’ombra d’una
rimembranza. E capì che tutti e tre gli avevano letto nell’anima.
Il direttore gli rispose lentamente, come distratto, che non essendo
pronta una raccolta intera, avrebbe cercato di farla mettere insieme,
e che, se anche fossero mancati dei numeri, siccome era stabilito che
i mancanti si ristampassero, egli sarebbe stato soddisfatto presto o
tardi: frattanto, gli avrebbe mandato a casa i fogli che c’erano.
Parlando, s’era alzato egli pure, e stava in mezzo agli altri due,
immobile, formando con essi come un gruppo statuario in fondo alla
stanza nuda; davanti al quale il Bianchini ebbe un pensiero che gli
scosse l’animo, e gli rimase impresso dentro indelebilmente insieme
con l’immagine di quelle tre persone raggruppate. Erano le tre grandi
forze del socialismo: un borghese; una donna, la grande ausiliatrice
invocata ed attesa, senza la quale nulla si sarebbe compiuto, quella
che doveva infonder la costanza ai valorosi, e suscitare gli inerti, e
svergognare i codardi, e sollevare, soffiando nell’oceano umano, l’onda
che avrebbe sepolto il vecchio mondo. Erano il simbolo vivente della
rivoluzione futura. E con questo pensiero gli s’affacciò alla mente,
quasi visibile come una realtà, l’abusata immagine dell’«alba d’un’età
nuova» e gli parve un momento che quelle tre figure immobili e ardite
si disegnassero sulla bianchezza di quell’orizzonte ideale.
Fu tentato di dire una parola; ma lo trattenne un senso di dignità, di
cui avrebbe saputo dar piena ragione. Si ristrinse a ringraziare, ed
uscì, facendo un saluto senza sorriso, a cui non risposero che i due
uomini, con un cenno del capo. Uscì socialista....
Come si diventa socialisti.
........ Spronato da quel desiderio, egli si gettò alle nuove letture
con la curiosità vivace di un viaggiatore che si affaccia a una terra
sconosciuta, sorvolando a tutto il socialismo sentimentale e filosofico
del primo periodo, per afferrarsi ai fondatori scientifici della
dottrina. Era, per sua natura, singolarmente preparato a ricevere da
quelle prime letture una impressione straordinaria, poichè il più vivo
e il più profondo dei suoi sentimenti era quello che chiamò «fondamento
d’ogni moralità» lo Scopenhauer: la pietà; raffinato in lui da una
calda immaginazione. In ogni periodo della sua vita, anche quando
egli aveva l’animo più offuscato dall’orgoglio, dalla sensualità, dai
rancori, quel sentimento aveva trovato aperta sempre e subito la via
del cuore, dal quale scacciava sull’atto, per più o meno tempo, tutti
gli altri. Egli non poteva veder soffrire senza soffrire egli stesso
con intensità quasi uguale a quella di chi l’impietosiva. La vista
di un vecchio povero, d’un fanciullo consumato dagli stenti, d’una
donna lacera e piangente, gli dava all’anima una stretta violenta, una
angoscia, un impulso di pietà appassionata, che gli faceva vuotar la
borsa, che gli avrebbe fatto dare anche i panni che portava addosso, se
non gli fosse rimasto altro da dare.
Anche la sola idea astratta d’una creatura umana, che, in mezzo a una
grande città, con o senza sua colpa, non ha un tozzo o un pugno del
più vile alimento da cacciarsi in corpo per non morire, che manca di
quello che non manca al cane, alla belva, all’insetto più schifoso
e malefico, gli era insopportabile come un dolore fisico acuto; e
per poter vivere e lavorare doveva cacciar di continuo dalla mente,
con uno sforzo faticoso, il pensiero che siffatte miserie esistevano
intorno a lui, che gli passavano accanto non viste per la via, che
si nascondevan forse nella sua medesima casa, sopra il suo capo. Fino
allora, per altro, egli non aveva sentito che la pietà della indulgenza
e dei dolori individuali. Ma quando, nelle nuove letture, vide per
la prima volta la miseria delle classi inferiori, studiata in tutti
i paesi, esposta in tutti i suoi svariatissimi aspetti, esaminata
in tutte le sue conseguenze funeste, provata con cifre spaventevoli:
quando conobbe tutte insieme le forme più miserande e inumane della
fatica, gli orrori delle cave, delle risaie, degli opifici avvelenati,
delle terre miasmatiche, le moltitudini condannate all’ozio e alla
fame, le generazioni infantili falciate dalla morte, che sta in agguato
dietro al lavoro, i milioni di tane immonde dove milioni di uomini si
ammontano, si ammorbano e s’imbestiano, e ritto davanti a sè, come
una montagna di sozzure, il cumulo immenso di alimenti ripugnanti e
mortiferi di cui si pasce quotidianamente una moltitudine innumerevole
di gente che lavora per un consorzio civile da cui par segregata
e reietta; allora tutta l’anima sua ne fu sconvolta, come dalla
rivelazione d’un nuovo mondo. Per la prima volta egli vide scorrere
davanti a sè l’enorme fiume nero della miseria, e onde di sangue, di
sudore e di pianto, ciascuna delle quali travolge una vittima e manda
una maledizione e un singhiozzo, e come il «Faust» del Goethe sentì
tutte le angoscie dell’umanità pesare sulla sua fronte e schiacciare il
suo cuore.
E nel tempo stesso egli udiva dire per la prima volta che questi mali
non erano effetto di una legge misteriosa di natura, ma avevano le
loro cause nelle istituzioni umane, e queste cause vedeva per la prima
volta esposte e dimostrate. E si diede a studiarle avidamente. Era la
parte critica della dottrina, la più forte e la più persuasiva, quella
in cui regnava un quasi compiuto accordo fra le scuole più discordi,
e alla quale erano opposte meno valide ragioni dagli avversari. Qui,
nondimeno, errò per qualche tempo in una nebbia d’idee, cercando di
afferrarne una, che gl’illuminasse tutte le altre. E ne afferrò una,
che era già nella sua mente da un pezzo, ma confusa e fuggevole:
cagione prima d’ogni male, il possedimento concesso a un piccolo
numero d’uomini di quello che è l’origine di tutti i prodotti e di
tutte le ricchezze, e il grande serbatoio di quanto è necessario alla
vita comune: la proprietà privata della terra, su cui tutti nascono e
muoiono, e l’uso della quale è supremo interesse di tutti; la proprietà
che toglie all’uomo il diritto di partecipare al dominio della natura,
e fa che milioni d’uomini, trovando già tutto posseduto al loro
apparire nel mondo, nascono servi e mendichi. L’ingiustizia e il danno
di una tal legge apparvero con la stessa evidenza luminosa che avrebbe
avuto per lui l’assurdità di un monopolio dell’aria che respiriamo. E
per lo squarcio fatto da questa nella cerchia delle sue vecchie idee,
un’altra gli entrò nella mente subito dopo, legata stretta alla prima:
la lucida comprensione d’un’altra causa di mali infiniti: il disordine
immenso nella produzione di tutto ciò che alla società è necessario,
l’anarchia della industria ridotta un giuoco d’azzardo, di cui scontano
le perdite le moltitudini che non hanno parte dei profitti, una libera
concorrenza che mette in perpetuo contrasto l’interesse personale con
l’interesse collettivo, che fa della vita civile una guerra combattuta
con le armi dell’astuzia e della frode, che mette il lavoro, funzione
sociale senza protezione e senza diritti, in balìa della cupidigia e
dell’egoismo, che sperpera un tesoro enorme di tempo, di forze e di
ricchezza, trascurando ogni cosa utile ad altri che non frutti a chi
la produce, arricchendo gli uni colle spoglie degli altri, mantenendo
la società in uno stato perpetuo di affanno e di violenza, in cui si
logorano le più nobili facoltà e si scatenano le più tristi passioni
umane.
E infine egli comprese, per la prima volta, nelle sue origini e nei
suoi effetti, il grande fatto, che non aveva mai meditato della
ricchezza: intuì l’ingiustizia che presiede alla sua formazione
nell’apparente, non reale libertà di contratto tra chi compra il lavoro
e chi lo vende, la figliazione mostruosa del denaro che mantiene delle
dinastie di parassiti, vittoriosi fin dalla nascita nella lotta per
l’esistenza e conquistatori senza lotta fino alla morte; l’esenzione
iniqua della ricchezza individuale dal debito che ella avrebbe verso
la società per la grande parte in cui questa concorre a produrla;
e riconobbe nei suoi istituti e nell’opera sua la grande feudalità
finanziaria, che non contenuta da alcun freno nè di legge nè di morale,
posta quasi al disopra del diritto e dello Stato, fornita di tutti i
privilegi delle antiche classi spodestate, allaccia nella sua rete il
commercio, l’industria, l’agricoltura, incetta e gioca le ricchezze
nazionali, accaparra a suo profitto tutte le invenzioni a tutti i
progressi, impone ad ogni cosa un balzello enorme che fa duplicare a
tutti il lavoro, perturba coi suoi monopoli giganteschi le condizioni
dell’esistenza dei popoli, e raccogliendo a poco a poco nelle proprie
mani tutti i mezzi di produzione, con cui costringe una sempre maggior
moltitudine d’uomini a chiederle pane e a subire le sue leggi, tende a
dividere la società in una piccola schiera di dominatori che avranno
tutto e in una folla immensa che non avrà nulla, separate l’una
dall’altra da una disuguaglianza più odiosa, da un’avversione più
feroce, da una contrarietà d’interessi più inconciliabile e più funesta
di quella che separava la servitù e la signoria dell’età media.
Quetato il primo tumulto di queste idee, che lo misero in uno stato di
rivolta segreta contro la società, si presentò a lui pure quell’eterna
domanda: — che fare? — e allora prese ad esame i grandi rimedi, la
trasformazione fondamentale di ogni ordinamento, che il socialismo
proponeva. Era la parte più debole della dottrina, quella in cui
è a tutti più arduo e più lungo acquistare una salda persuasione
favorevole.
Egli fu lietamente meravigliato, sulle prime, trovando la teoria della
ricostruzione condotta già molto più innanzi di quello che si fosse
vagamente immaginato, una enorme quantità di materiali del nuovo
edifizio già lavorati e quasi ordinati dal pensiero scientifico di
mille intelletti poderosi e pazienti, la nuova vita sociale descritta
e dimostrata possibile e quasi perfetta fin nelle sue minime funzioni
e in ogni più difficile prova. Poi, voltandosi ad ascoltare le ragioni
degli avversari, s’arrestò, sgomentato. Al primo urto della loro
critica che affermava assurda la nuova teoria del valore, soffocata
dal collettivismo la libertà individuale, distrutto dall’abolizione
della proprietà privata lo stimolo al lavoro, impossibile proporzionare
legalmente il compenso alla varia natura dell’opera, inconcepibile
l’azione d’uno Stato proprietario d’ogni cosa e incaricato di tutte le
direzioni e di tutte le iniziative, gli parve che l’edificio crollasse,
ed egli indietreggiò, soverchiato per un istante dall’amarezza d’una
gran delusione. Ma se non riusciva a persuadersi della possibilità dei
rimedi, a che giovava l’indignazione contro le ingiustizie, a che la
pietà delle miserie e dei dolori? E questi sentimenti erano già in lui
così forti, che non poteva più rassegnarsi a crederli vani.
Una forza prepotente lo cacciava innanzi. Egli aveva bisogno di una
fede, oramai, e la voleva ad ogni costo. E allora si mise a cercarla
con la passione che vuol trovare quello che cerca e abbatte tutti gli
ostacoli sulla sua via. Si lanciò a capo basso contro alla critica
nemica del suo sogno, raccolse nuove ragioni contro i suoi argomenti,
si dissimulò fra questi i più forti, ingrandendo nella propria
immaginazione l’importanza di quelli che riusciva ad abbattere, si
afferrò all’idea che la trasformazione si sarebbe compiuta per effetto
di eventi imprevedibili e di forze non ancor conosciute, che i vizi
dell’ordinamento proposto sarebbero stati corretti con le modificazioni
suggerite ed imposte dall’esperienza, che la società nuova avrebbe
creato essa medesima, come la natura negli organismi animali, gli
organi necessari alle sue nuove funzioni, che dalla concordia dei
milioni d’oppressi già vicini alla mèta sarebbe derivato nella società
un tal mutamento morale da rendere agevole quasi miracolosamente
l’attuazione d’ogni più vasta ed ardita idea; che in fine, quello che
innanzi a ogni cosa premeva e s’aveva a fare era di consacrarsi alla
santa causa, di proclamare e diffondere il sentimento di giustizia e
della intollerabilità dello stato sociale presente, di ordinare per
ora le moltitudini intorno a questa sola bandiera, poichè esse non si
raccolgono che sotto alla bandiera della negazione, e di suscitare
nella gioventù colta e generosa, con l’esempio e con la parola, la
fiamma della fede che compie i prodigi e solleva il mondo. Così un po’
per virtù d’entusiasmo, un poco per effetto di persuasione, egli s’era
formato una illusione di certezza, che la gioia d’aver dato alla sua
vita un nuovo ideale gli fece creder così piena e ferma ed illuminata,
da non aver più bisogno di porla alla prova ritornando a pesar le
ragioni dei negatori. Datosi alla nuova idea con l’impeto della sua
natura, non comunicando più che con le menti che gliela avevano infusa,
trovava ogni giorno una nuova ragione in suo sostegno, esultava della
sua rapida diffusione, che su di lui aveva forza di argomento, e
l’accarezzava in segreto come un tesoro e n’era altero come di una
conquista aspettando d’essere abbastanza forte di meditazione di studi
per poter professarla arditamente e difenderla da valoroso.
Tutti i suoi ideali passati, intanto, tutte le sue ambizioni di
insegnante e d’artista impallidivano davanti a quella nuova ospite
dell’anima sua, come al sorgere dell’alba la fiammella del lume con cui
aveva vegliato a meditarla....
Fra padre e figlio.
(FRAMMENTO.)
La mattina alle dieci, quando fu tornato dalla passeggiata solita,
mentre sua moglie e la ragazza erano a messa, gli capitarono in casa
Alberto e la nuora.
Egli si slanciò incontro al figliuolo come se non l’avesse visto da un
mese. Entrarono tutti e due nella stanza di studio, inondata di luce,
tutti e due così freschi, belli, vestiti bene, splendidi di gioventù e
di allegrezza, che il Bianchini non potè trattenere un’esclamazione di
piacere e rimase un momento immobile ad ammirarli. Ah! quell’Alberto,
quel caro figliuolo! Ogni volta che lo vedeva era tentato di cacciargli
le mani in quei folti capelli biondi arricciolati, come gliele metteva
quand’ora bambino, che ci si perdevano come dentro un mucchio di
matassine di seta. Non era molto alto della persona, ma di membra ben
proporzionate e solide, e aveva il viso di suo padre, ma raffinato di
forme e nobilitato dalla luce dell’ingegno, e quella medesima aria di
bontà, ma ingentilita e mista a una franca espressione d’alterezza
virile. Egli risentiva sempre davanti al figliuolo la gioia d’un
artista mediocre che ha imbroccato per caso un capolavoro. E godeva
a metter giù davanti a lui ogni apparenza d’autorità paterna, e
a dimostrargli che sentiva la sua superiorità, per fargli meglio
comprendere il proprio affetto e la propria gratitudine.
Sedettero un momento tutti e tre intorno a un tavolino rotondo, di
contro la finestra, donde entrava un raggio di sole, che dorava il
capo del giovane, e metteva in vista la freschezza bianchissima di sua
moglie, e il Bianchini parlò subito degli avvenimenti del 1.º maggio,
scherzando, preparato a una scrollata di spalle del figliuolo, che
viveva tutto nei suoi studi letterari, incurante d’ogni altra cosa.
— Hai visto — gli disse — hai sentito, ieri sera, quei mascalzoni?...
Il figliuolo rispose con indifferenza. Sì, aveva visto. Era rimasto
un’ora sotto i portici della piazza, in fondo, davanti al caffè Rossi.
E s’arrestò a quelle parole, come se gli rincrescesse di soggiungere
quello che aveva in mente. Ma, domandandogli suo padre che cosa ne
pensasse, espresse il pensiero.
— Che cosa vuoi — disse. — Per me.... mi fa pena vedere una società
che, quando la gente che la fa vivere domanda un po’ più di benessere e
un po’ meno di lavoro, per tutta risposta le mostra le baionette.
Il padre lo guardò con due grandi occhi.
— Capisco — rispose poi — ma lo domandino in un altro modo.
— È un pezzo che lo domandano in un altro modo — osservò il figliuolo
sorridendo. — Che cosa hanno ottenuto finora?
Il padre tornò a guardarlo stupito.
— Ma, — disse dopo — bisogna vedere se le loro domande sono
ragionevoli. Infine.... la condizione degli operai è migliorata molto,
da una volta.
— È un’asserzione discutibile — rispose il giovane. — È migliorata per
alcuni, è peggiorata per altri, è diventata più precaria per tutti.
Ma, ammesso pure che stessero peggio una volta.... ti parrebbe giusto
negare un diritto ad un negro affrancato, per la ragione che suo padre
schiavo, non ne aveva nessuno?
Il Bianchini non afferrò l’argomento.
— Sta bene — obbiettò — ma.... lasciamo andare; il migliorare la
propria condizione dipende anche in gran parte da loro; se facessero un
po’ più d’economia, se non avessero dei vizi, se s’istruissero....
— Ma, caro papà — gli rispose con sorriso amorevole il figliuolo —
quando i salari bastano appena alla vita, come vuoi che bastino a
far delle economie? I vizi! Dio mio, noi lo sappiamo bene che grandi
vizi si possono avere senza danaro. E che tempo è lasciato loro per
istruirsi?
— Che tempo è lasciato loro per istruirsi! — ripetè il Bianchini un po’
imbarazzato. — Dunque, tu sei per le otto ore di lavoro?
— Certo.
— E credi che le otterranno?
— No.
— Vedi dunque che lo stato attuale delle cose è inevitabile.
— No, padre mio. Tu vuoi dire che lo stato attuale delle cose era
inevitabile che si producesse, come fase d’ogni svolgimento di fatti;
e questa è la verità. Ma è un’altra cosa. Come lo stato attuale è
derivato da un altro, così un altro col tempo succederà a questo,
necessariamente, per forze indipendenti dalla volontà dei privati e dei
governi.
Il padre lo guardò un’altra volta con stupore; poi crollò il capo, non
persuaso. E domandò recisamente:
— In che maniera?
— Ah! in quanto a questo — rispose il giovane sorridendo.... — io
non posso saperlo. Si può prevedere a che arriverà la società: ma non
seguire la via o le vie per cui passerà per arrivarvi.
— Vorresti dire una rivoluzione? — domandò il padre fissandolo.
— Può anche darsi. O se non una rivoluzione, una serie di scosse
violente, di convulsioni sociali, che a poco a poco muteranno
radicalmente lo stato attuale.
— E credi che comincerà presto questa serie di.... rivoluzioni? —
domandò il Bianchini col sorriso di chi dubita se il discorso sia serio
o faceto.
— Credo che sia già cominciata — rispose il figliuolo.
A queste parole il Bianchini e la signora s’alzarono tutti e due
insieme ridendo, come per fargli capire che non dubitavano più d’uno
scherzo.
— E da quando in qua hai queste idee? — gli domandò la moglie celiando.
E il padre ripetè la domanda, mettendogli scherzosamente una mano sulla
spalla: — Giusto; da quando in qua hai queste idee?
Alberto s’alzò piccato e rispose: — Ho parlato sul serio. Come potete
supporre che io scherzi sopra un argomento di questo genere?
Il padre cessò di ridere. — Perchè allora non ci hai mai espresso le
tue idee?
— Perchè prevedevo che non ci saremmo intesi. Vedete bene che avevo
ragione.
— Ma insomma — disse il Bianchini battendosi sulla fronte le dita
riunite della mano destra — dimmi proprio chiaro e preciso quello che
pensi.
Il giovane rispose con dolce pacatezza: — Ecco quello che penso.
Penso che la parte che è data ai lavoratori nel prodotto generale
della ricchezza non è proporzionata alla parte che essi rappresentano
nell’opera generale della produzione. Penso che non è giusto che quella
parte della società che fa il lavoro più necessario e più faticoso
per nutrirla, vestirla e ricoverarla e dare all’altra parte il tempo
e i mezzi d’istruirsi, non guadagni abbastanza da nutrirsi, vestirsi e
ricoverarsi umanamente, e sia esclusa dalla possibilità di istruirsi.
Penso insomma, che il lavoro non raccoglie tutti i benefizi, a cui
avrebbe diritto, del progresso della civiltà, perchè questi benefizi
gli sono intercettati da un difettoso e ingiusto ordinamento sociale.
Ecco il mio pensiero.
La signora, con la voce placida, si intromise nella discussione. — Ma,
Alberto, come vuoi che tutti si possan trovare nelle stesse condizioni
di fortuna?
Il Bianchini approvò con un cenno del capo.
— Non dico questo — rispose Alberto. — Ma perchè si debbono trovare,
regolarmente, nelle condizioni peggiori quelli che faticano di più e
che sono più necessari? Perchè ci deve essere tanta gente che lavora
troppo e non mangia abbastanza, tanta altra gente che lavorando
pochissimo, vive nell’agiatezza, e tant’altra che non lavorando punto,
nuota nell’abbondanza?
— Ma perchè il mondo è fatto così, figliuol mio! — esclamò il padre,
allargando le braccia, maravigliato dall’ingenuità del figliuolo. —
Perchè così è sempre stato e sarà sempre!
— No, papà. Così come ora non è sempre stato. C’erano la schiavitù e il
servaggio, e non ci son più; c’era il feudalismo, c’era il dispotismo,
e sono scomparsi; c’era l’ineguaglianza civile e politica delle classi,
ed è stata, almeno legalmente, soppressa. Vedi che il mondo si è
mutato; e se può mutarsi non è ragionevole il dire: — è fatto così —
per provare che non c’è rimedio alle sue ingiustizie e ai suoi mali.
Il padre esitò un momento.
— Ma come dovrebbe ancora mutare — domandò poi — se dici tu stesso
che abbiamo la libertà e l’eguaglianza, che è quanto dire che tutte le
strade sono aperte a tutti per migliorare la propria sorte?
Il figliuolo fece un leggiero atto d’impazienza. Poco tollerante della
contraddizione per vivacità di natura, lo impazientiva anche di più
la contraddizione di suo padre che pure amava tanto, appunto perchè in
tutte le altre questioni egli l’aveva sempre trovato cedevole, persuaso
o no, alle sue idee. Gli salì alle guancie un leggiero rossore.
— Ecco l’errore — esclamò. — La libertà e l’eguaglianza furono una
conquista di fatto per una parte della società; ma rimasero due parole
vuote per l’altra. L’eguaglianza vera non può sussistere fin che
l’esistenza del maggior numero dipende dalla volontà o dalla fortuna di
pochissimi. La libertà non è che per chi ha mezzi e coltura. Chi non
ha nè gli uni nè l’altra è schiavo della miseria, della sua ignoranza
e del caso. La via a migliorar la propria sorte non è aperta a tutti,
perchè tutti quelli che nascono in condizioni privilegiate di fortuna,
si trovano già a mezza strada e l’ingombrano, e non c’è uno su mille
degli altri che possa raggiungerli e aprirsi il passo fra loro. Pensaci
un poco, papà. È una ingiustizia che rivolta. Se non ce ne accorgiamo è
perchè i nostri interessi ci hanno fasciata la coscienza.
Il padre lo guardò un’altra volta, più profondamente stupito di prima.
Poi si ribellò, ripetendo una frase udita. — Oh, infine — disse con
energia insolita — il mondo è di quelli che se lo presero, che sono
stati i più forti.
— Saranno stati i più forti una volta — rispose Alberto. — Ora non
sono altro, in massima parte, che i più fortunati e i più furbi. — Ma
ammettiamo i più forti. Vuol dire che quando, mettendosi d’accordo,
saranno i più forti i lavoratori, avranno ragione di cacciarci il
tallone sul collo, come noi facciamo adesso con loro.
Il Bianchini ebbe una scossa.
— Ma, Alberto! — esclamò la moglie scandalizzata, guardandolo in
faccia, come se gli vedesse una faccia nuova
— Ma, figliuol mio! — disse il padre con un accento di severità triste
che non aveva mai usato con lui — chi t’ha ispirato queste idee....
così poco degne di te?
Un’ondata di sangue salì al viso di Alberto
— Poco degne di me?... — rispose, frenando la voce. — Ma scusami, a me
pare che fossero indegne di me quelle che avevo prima. E non ho detto
la metà di quello che penso. Penso che, così com’è ora, la società
è tutta ordinata e diretta a benefizio d’una piccola minoranza, la
quale sfrutta tutte le forze dei lavoratori sotto la protezione delle
leggi, leggi che ha fatto essa sola e per sè sola; che tutto l’edifizio
sociale si regge sull’ignoranza e sull’abbrutimento delle moltitudini;
che è la sola violenza che lo tiene insieme, e che questo stato di cose
ci corrompe tutti, che è come un’infezione nell’atmosfera morale, la
causa prima di tutte le più tristi passioni e delle azioni più nefande
e della menzogna d’ogni nostra istituzione e d’ogni nostra parola;
e che questo stato di cose non può durare e non durerà e che è sacro
dovere di tutti il far tutto il possibile perchè non duri, se anche si
dovesse sconvolgere il mondo....
La signora, turbata, con un rapido moto della mano gli chiuse le
labbra. Il padre lo fissò lungamente con gli occhi spalancati, e poi,
prendendogli le due mani e mettendosele sul petto, gli disse a voce
bassa, con accento di affetto profondo e di sincero dolore: — Alberto,
figlio mio, sei proprio tu che dici queste cose?
— Son io senza dubbio — rispose il giovane con un sorriso contratto,
sciogliendo lentamente le mani. — Mi rincresce di spiacerti. Ma con chi
dovrei esser sincero, se non con mio padre? Io vedo ora il mondo sotto
altro aspetto che per il passato, ed è il suo aspetto vero. Credevo
che il mondo fosse la scienza, l’arte, la politica e tutta la gente
fortunata che si occupa di queste cose; e non vedevo altro. Ora vedo
che il mondo è la moltitudine, quasi relegata fuor del progresso, che
alla società dà tutto e non ne riceve presso che nulla, che suda sopra
e dentro la terra e si consuma nelle officine e copre delle sue ossa i
campi di battaglia senza cavarne altro frutto che di non morir di fame;
che dalla miseria è costretta a vendere la carne, l’anima e l’onestà
della donna e il sangue dell’infanzia, e per miseria minaccia, ruba,
ammazza, si dispera, impazzisce, s’uccide, fa del mondo un inferno....
Il padre fece l’atto d’interromperlo.
— .... Mentre un piccolo numero — continuò il figlio risoluto —
raccolto in disparte, canta degli inni alla patria e alla civiltà e
trova che è bella la vita. Ora io mi son persuaso che a tutto questo
c’è rimedio, come milioni d’uomini lo sperarono per il passato, come
altri milioni lo credono al presente con molto più ragione dei primi.
Questa persuasione m’è entrata nell’anima come un raggio di sole. Sarà
un errore; il rimedio non sarà quello che si crede e si propone, sarà
un altro, saranno altri, complessi, lenti, difficili. Non importa.
La prima cosa da farsi per guarire un male è quella di riconoscerlo,
il primo dovere di chi vuol togliere un’ingiustizia è quello di
confessarla e di proclamare il buon diritto di chi la patisce. Io non
posso far altro, faccio questo; faccio eco alla voce degli oppressi e
dei miserevoli; rifiuto la complicità del mio silenzio all’oppressione,
e protesto. Non posso più aver pace e dignità di coscienza che
nell’adempimento di questo dovere. E lo adempirò a qualunque rischio e,
a qualunque costo!
Il padre diventò pallido. Egli domandò con voce alterata:
— E tu dirai queste cose a tutti?
— Le dirò, naturalmente.
— E lo scriverai? — domandò il Bianchini abbassando la voce.
— Le scriverò.
— Ma tu non sei in te, Alberto! — esclamò la moglie afferrandogli la
mano.
— Scriverai quello che hai detto a me, — riprese il padre con maggior
commozione — che tutto è ingiustizia, menzogna e violenza, che
bisogna.... equiparar le fortune, che è necessario mutar le cose anche
se si debba sconvolgere il mondo?... E pubblicherai queste idee col
tuo nome.... a costo di metter la discordia in famiglia, di inimicarti
tutti, di rovinar la tua carriera?
— Senza il menomo dubbio, perchè ho detto che lo credo un dovere.
Il padre stette un momento a guardarlo, con un viso che Alberto non gli
aveva mai visto. Poi gridò, tremante di collera: — Ebbene, tu sei un
altro da quello che credevo. Tu non hai affetto nè per tuo padre, nè
per tua moglie, nè per il tuo bambino. Non hai più nè ragione nè cuore.
E sei un ingrato. Non ti riconosco più per mio figlio.
E si slanciò nell’altra stanza.
La signora, sconvolta da quelle parole, gli corse dietro, chiamandolo;
ma egli chiuse l’uscio con violenza.
— Alberto, — disse allora, severamente a suo marito, stentando a
raccoglier la voce — io avevo diritto di conoscere prima d’ogni altro
queste tue idee. Perchè non me le hai mai confidate?
Scosso profondamente da quella scena, la più grave, la sola grave che
il padre gli avesse mai fatto in vita sua, il giovane si ricompose a
fatica, e rispose con voce commossa, ma risoluta: — Perchè m’avresti
fatto come papà; hai veduto.
— No — disse la moglie; — avrei cercato di moderarti, di farti
riflettere.... T’avrei impedito di dare a tuo padre questo dolore.
— Sì — rispose il giovane, passandosi una mano sulla fronte — ho
ecceduto.... Ma egli pure.
— Tu sai che t’adora — disse la signora. — Io son certa che soffre
immensamente. — E soggiunse sottovoce: — vagli a chiedere perdono.
Alberto fece uno sforzo sopra di sè, poi rispose risolutamente, ma con
rammarico: — Non posso.
Fra madre e figlio.
LA MADRE (afflitta). — Intanto tu sei socialista e non credi in Dio
(toccando un piccolo crocifisso che tiene appeso al collo) e non hai
più fede in questo, che baciavi da bambino.
IL FIGLIUOLO. — Quando mai l’ho detto? No, cara mamma. Io non affermo;
ma non nego. Io spero. Ecco il mio stato di coscienza, che è anche
lo stato vero, credilo, della maggior parte di quelli che si dicono
credenti. Se non ho la fede ferma non è già perchè io sia socialista,
ma perchè sono un uomo del tempo mio. Il dubbio mi è venuto da
un’educazione intellettuale che non mi fu data dai socialisti. Guardati
intorno; vedi fra i nostri amici e conoscenti quante persone d’ogni
età, rispettate anche da te, avversissime al socialismo le quali
non hanno fede e lo dicono, o dicono di averla e vivono come se non
l’avessero. Il socialismo non comanda punto di non credere: dice: — La
coscienza è libera. — E non ti pare abbia ragione? Non è forse vero che
soltanto in una coscienza libera può nascere la fede vera?
M. — Ebbene.... se in qualche momento tu credi in Dio, come mai non
pensi, povero figliuolo, tu che vuoi mutare il mondo, che se la società
è fatta come è, è perchè Dio lo consente?
F. — No, cara mamma, non lo posso pensare. Il mondo di ora è tutt’altro
da quello che era secoli fa. Questo lo ammetti? Ebbene, se si è mutato
è perchè Dio lo ha consentito. Se ha consentito che si mutasse per
il passato, perchè non dovrebbe consentire che si muti nell’avvenire?
Quale credente oserebbe di affermare che la forma attuale della società
sia l’ultima ch’egli consente, quella che egli ha designato a non più
mutare? Che tutti i disordini e i mali che le sono inerenti egli li
voglia mantenuti per sempre? Se c’è una cosa manifesta, è che Dio ci
_lascia fare_, perchè se ciò non fosse non avremmo la libertà; senza
la quale non ci sarebbero nè meriti nè colpe. Siamo dunque liberi di
fare tutto quello che ci par bene, di distruggere tutto quello che ci
par male, di mutare la società nel modo che ci par meglio per essa, e
potendolo fare, abbiamo, davanti a Dio, il dovere di farlo.
M. — Sarà così.... non lo nego.... Ma il vostro errore è questo, che
la vostra idea, come dicon tutti, è un’utopia, fondata sopra una idea
falsa della natura degli uomini....
F. — Ma allora, cara mamma, e l’idea di Cristo, che tutti gli uomini
si amino come fratelli, che i ricchi diano tutto ai poveri riducendosi
poveri anch’essi, che si perdonino tutte le offese, che non si curi
alcun interesse della terra, non ti pare forse un’utopia, fondata
sopra un concetto falso della natura degli uomini? Vedi che in mille e
novecento anni non è diventata realtà; credi che lo sarà mai?
M. — Oh, la cosa è ben diversa! Tutto quello che prescrive il Vangelo,
ognuno che lo voglia, lo può fare; supponi che tutti lo facciano, e
il mondo sarà mutato in meglio, e sarà trasformata la società, come tu
desideri. Vedi che basta la religione a far questo.
F. — No, cara mamma. Se bastasse la religione a mantenere e a mandare
innanzi gli uomini sulla buona via, perchè sarebbero necessarie, anche
tra i popoli più religiosi, tante leggi e tanta forza per proteggere
vita e proprietà, per frenare e punire, per conservar l’ordine e la
pace? Vuol dire che la religione non basta. Se non basta a mantenere
quel po’ di bene che esiste, non basta a conseguire il meglio a cui
aspiriamo.
M. — Io non so.... Ma tutti lo dicono; voi volete un cambiamento
impossibile, una società che avete immaginata voi, che non è mai stata
e non sarà mai.
F. — Ma neanche la società quale è ora non è mai stata. È quella
che ora non sta, ma cammina. Vedi un po’ intorno a noi, cara mamma,
quante istituzioni, leggi, idee, costumi, tendenze, di cui, quando eri
giovine, non c’era indizio, o se ne parlava, se te ne ricordi, come di
idee stravaganti di pochi, che non si sarebbero attuate mai. Considera
un po’ tutte queste cose: organizzazioni operaie, società cooperative,
leghe di resistenza, leggi protettrici del lavoro, giurì popolari, idee
di solidarietà e d’eguaglianza, rivendicazioni di diritti e di riforme,
lotte formidabili fra lavoratori e padroni; precorri col pensiero lo
svolgimento di tutte queste cose nuove nell’avvenire, come faresti
con l’occhio di tante linee convergenti, poichè tutte quelle forze
tendono a un fine solo, che è uno stato migliore delle moltitudini, e
interroga la tua ragione, e vedi se non ti dice che nel punto in cui
s’incontreranno ci sarà il socialismo, o qualche cosa di molto simile,
donde si verrà a quello naturalmente. Tu vedi che il mondo muta. Tu
sei certa che fra cento anni sarà molto diverso da quello che è adesso.
Ebbene, credi tu che allora sarà molto più vicino, o molto più lontano
che adesso, dall’ordinamento sociale che noi invochiamo?
M. (turbata). — Di queste cose io non sono in grado di discutere, caro
figliuolo.... Ma per quanto tu dica, io sento per le vostre idee una
ripugnanza.... un terrore, che vuol dir qualche cosa.
F. — Ma codesta ripugnanza, codesto terrore, pensaci bene, non sono
proprio le nostre idee che lo destano: te l’hanno destato le persone
che le travisano e ci calunniano. Pensa che milioni di uomini, per
lunghissimo tempo, hanno creduto in buona fede che i primi cristiani,
che pure vivevano in mezzo a loro, fossero gente malvagia e corrotta,
capace di ogni sozzura e di ogni delitto....
M. — Ah! non far di questi confronti, figliuol mio! Può darsi che il
mondo s’abbia a mutare, come tu dici; ma non muterà in meglio se non
sarà con Dio. Da lui solo vengono i buoni sentimenti e le buone idee.
E il cuore mi dice, che voi non siete con lui. Che cosa sarà mai il
progresso, la civiltà, tutto quello che tu vuoi, senza la religione?
F. — E che cos’è mai la religione senza le opere, cara mamma? Esamina
un poco, uno per uno, i nostri propositi. Il socialismo vuole una
società in cui non si possa arricchire sul lavoro altrui nè vivere
senza lavorare, in cui chi lavora abbia diritto a vivere, in cui,
lavorando tutti, il lavoro non sia per alcuno eccessivo, e quindi
non abbrutisca e non torturi alcuno, e dia al lavoratore il tempo e
il modo di ristorar le forze, di curar la famiglia e di coltivar lo
spirito; vuole che cessi questa necessità fatale che, per alimentare
la officina, strappa le madri ai figliuoli o i figliuoli alla
casa e alla scuola, estenuando e corrompendo donne e fanciulli,
perpetuando l’ignoranza nella moltitudine e seminando la morte fra
i deboli: vuole che cessi questa concorrenza sfrenata che è causa di
tante basse passioni, angoscie e rovine, questa furia d’acquistare,
questo terrore di perdere, questa mischia feroce degli uomini che
si disputano a morsi il palmo di terra e il boccoli di pane; vuole
che cessi tutto questo per dar luogo ad una società non più divisa
da orgogli e da odii di classe, non più irritata da uno spettacolo
d’ineguaglianze, d’ingiustizie e di miserie immeritate, che contrista
e scoraggia ogni coscienza onesta; vuole, insomma, che gli uomini
si accordino e si compongano, per quanto è possibile, in una grande
famiglia operosa, in cui, se non sono soppressi l’egoismo, i dolori,
le ineguaglianze della natura, l’egoismo è contenuto, i dolori sono
consolati, le ineguaglianze sono attenuate dall’affetto reciproco e
dal sentimento dell’interesse comune e non sieno possibili la fame e
la disperazione accanto all’abbondanza e alla festa. Ebbene, di tutti
questi desideri e propositi, cara mamma, c’è uno solo che contrasti la
religione? Uno solo che il tuo cuor buono e generoso possa rifiutare?
E dimmi ancora: si può credere in Dio buono e giusto, senza credere
ch’egli desideri che quell’ideale s’avveri? E si può creder questo
e non sentire il dovere imperioso di lavorare con tutte le forze al
conseguimento di quell’ideale? Tu dici che i buoni sentimenti vengon
da Dio. E allora, madre mia, donde mi vien mai questo sentimento che
provo per la moltitudine che fatica e che soffre, questa pietà che mi
fa pianger l’anima, questo desiderio del bene, quest’odio del male e
dell’ingiustizia che ha distrutto la pace della mia vita e che pure mi
dà le più nobili gioie che si godano sulla terra?
M. (commossa). — Certo.... se ti sento parlare.... Ebbene, se sei
sincero (con risoluzione improvvisa, prendendo il piccolo crocifisso
che tiene al collo e sporgendolo, con un dolce sorriso verso il
figliuolo) bacia un po’ questo....
F. (semplicemente). — Ha amato i poveri, ha consolato gl’infelici, ha
predicata la giustizia, è morto per i suoi fratelli. Con tutta l’anima
mia. (Bacia il crocifisso tre volte).
M. (con vivo slancio di commozione). — Figliuolo mio! (ma si rattiene
subito, ripresa da un turbamento, e passandosi una mano sulla fronte,
dice con accento di tristezza): Eppure.... non so.... non capisco....
F. (tra sè, con un sospiro). — Ecco la gran disgrazia.... Non capisco.